Un dibattito intenso, nato da una ferita ancora aperta, ma carico di speranza e volontà di ripartenza. Ieri mattina, presso la Biblioteca Santa Caterina di Monreale, si è tenuto l’incontro “La cultura e la comunità: spazi comuni e convivenza”, promosso nell’ambito del progetto Open Library. Un momento di confronto intergenerazionale per riflettere – dopo i tragici fatti del 27 aprile – sul ruolo della cultura come collante sociale e strumento di ricostruzione comunitaria.
All’incontro sono intervenuti Ilaria Cascino dell’Assemblea dei Giovani di Monreale; l’insegnante Emanuele Ridulfo; lo scrittore Augusto Cavadi e Renato Di Giovanni, coordinatore gruppo intervento psicologico dell’Asp di Palermo. “Dal dialogo – spiegano gli organizzatori – è emersa una consapevolezza condivisa: oggi manca un punto di riferimento stabile, ma c’è una forte volontà di ripartire, sostenendo i giovani e costruendo spazi reali di ascolto, partecipazione e dialogo intergenerazionale”.
Nel suo intervento Ilaria Cascino ha raccontato il percorso nato spontaneamente dopo la tragica sparatoria avvenuta a Monreale lo scorso 27 aprile, quando un gruppo di giovani ha iniziato a riunirsi per condividere dolore, pensieri e bisogno di comunità. Da questi incontri sono nate assemblee autogestite, laboratori e proposte concrete per ripensare insieme il presente e il futuro. Al termine del suo intervento, ha letto una lettera aperta rivolta all’intera comunità, frutto del lavoro collettivo dell’assemblea.
Di seguito il testo integrale della lettera.
In tempi segnati dalla paura, dalla semplificazione e dalla crisi della politica, si fa sempre più strada la retorica dell’“educazione al bello”, una formula elegante, rassicurante, apparentemente nobile, ma è proprio in questa apparente innocenza che si nasconde il rischio maggiore: quello di trasformare la cultura in uno strumento di esclusione, in una pedagogia dell’obbedienza mascherata da estetica.
Per secoli, il “bello” è stato proprietà privata, una costruzione elitaria, borghese, disciplinata da canoni e linguaggi decisi altrove: ogni volta che si pretende di imporre un’educazione al bello senza interrogarsi su chi decide cos’è bello, per chi, e a quale prezzo, si rischia di esercitare una nuova forma di violenza simbolica. Una bellezza imposta dall’alto diventa un’arma, una misura per giudicare e per distinguere chi “merita” e chi no.
Come possiamo parlare di bellezza ai ragazzi dello ZEN, cresciuti tra ecomostri, abbandono e marginalità strutturali? Quale “bello” dovrebbero riconoscere, se intorno a loro l’architettura ha parlato solo di esclusione e segregazione? Lì non manca il bello, mancano la relazione, la fiducia e lo Stato.
Smettiamola con le scorciatoie, il disagio giovanile non si cura con la retorica e la violenza non è un’emergenza: è il sintomo di un sistema che ha smesso di ascoltare, di investire e di immaginare, è il prodotto di una politica che taglia sulla cultura e poi si scandalizza del vuoto, di un’economia che produce scarto umano e poi si stupisce se lo scarto brucia.
Non abbiamo bisogno di educare al bello, abbiamo bisogno di restituire voce, di costruire processi, pensiero e conflitto creativo.
Come nell’arte contemporanea, ciò che conta non è se l’opera ci piace: è il gesto che l’ha generata, il dubbio che pone, la rottura che provoca, l’arte e la cultura non servono a decorare, servono a pensare, a disturbare e a creare nuove connessioni.
Rivendichiamo spazi pubblici, politici e pedagogici, biblioteche, scuole che siano anche piazze e luoghi vivi, vogliamo comunità educanti, adulti presenti e non sorveglianti, vogliamo la cultura come diritto, non come premio. Non abbiamo bisogno di bellezza impacchettata: abbiamo bisogno di processi che costruiscano senso, legame e libertà.
La vera bellezza non è quella delle immagini patinate, ma quella che nasce nel dubbio, nella crepa e nel margine, la bellezza che ci interessa è quella che si costruisce insieme e che accetta il conflitto come materia viva, perché solo una cultura che pensa può generare giustizia.
Oggi, a Monreale come altrove, non serve l’ennesimo comunicato, servono una visione politica e il coraggio di rovesciare le priorità. Non chiediamo “educazione al bello”, chiediamo educazione al pensiero, perché la bellezza che salva non è quella che si mostra, ma quella che si costruisce insieme.