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La Monreale che non c’è più, l’Unesco, due gradini e la fascia di un sindaco

Non sono trascorsi molti gli anni da quando attraversando la Ciambra si percepiva il ritmo del martello sulle incudini e quell’aspro e duro odore di ferro rovente che il signor Peppuccio lasciava uscire dalla sua tana di fabbro. Accanto a lui Gianni il falegname cantava a squarciagola e la segatura veniva raccolta da ragazzetti che facevano da apprendisti.
In un’altra strada potevi prendere una bottiglia di Coca Cola affacciandoti all’uscio di una taverna e riportavi il ”vuoto a rendere” che faceva così tanto sostenibile quando di bio non c’era ancora nulla.

Oppure c’era “Muscaredda” fiero delle sue medaglie sulla giacca blu, a dirigere il traffico delle poche auto che posteggiavano e che viveva miseramente della carità dentro un piccolo, buio e malsano magazzino. La zia dopo aver fatto il bucato di prima mattina, dava una spinta ai suoi figli troppo piccoli per la scuola, e li faceva andare a giocare per strada con le figurine mentre già preparava le melanzane fritte. Era il tempo in cui alla Ciambra bastava chiudere gli occhi per saper dire dove ti trovassi. Il quartiere era il luogo perfetto di lavoro, relazioni, crescita, cibo e residenza in tutto in un ordine sparso e apparentemente confuso. Ogni commerciante lavorava silenziosamente dentro bottegucce che non avevano nemmeno una insegna a indicare l’attività e la signora Anna vendeva i dolciumi a file di bambini che aumentavano a dismisura il conto di fine settimana dei papà. Mai nessuno di loro era fuori posto, mai nessuna di queste persone voleva arrecare danno a uno dei suoi vicini, nessuno di loro litigava per gli spazi o si accaparrava i luoghi pubblici per la propria attività privata.

Walter Benjamin scriveva: il momento pubblico e quello privato non sono adiacenti tra loro come una camera da letto e una ambulatorio medico, ma sono intessuti l’uno nell’altro (crf. Critiche e recensioni. Tra avanguardie e letteratura di consumo -Einaudi 1979).

Oggi sono stato invitato a riflettere dalla Redazione su vari avvenimenti all’interno di questo quartiere e nello specifico su quanto sia corretto poter utilizzare gli spazi e le strade dei quartieri storici. L’incipit serve a capire che la città non è un organismo regolato dalla urbanistica ma da essa interpretato, nell’approccio metodologico, di lettura e studio.
Nel discernimento in merito a cosa bisogna fare per i quartieri (da progettisti, da politici e soprattutto da cittadini) bisogna necessariamente avvicinarsi a delle “Valutazioni di Impatto Sociale”.

A molti la questione della realizzazione di un piano rialzato e di due gradini parrà banale, ma non è così. Quando parliamo di Unesco o Fai portiamo dietro una serie di elementi precisi che sottendono ad un sentire particolare verso la complessità dei sistemi architettonici e delle loro pertinenze. Nel 1916 Max Dvorak asseriva che: “la tutela dei monumenti è uno dei doveri delle comunità e delle nazioni… La conservazione dei monumenti del passato deve essere considerata come uno dei doveri delle autorità dello Stato. Pertanto essi vanno conservati al massimo nella loro funzione e ambientazione originaria”.

Ma passando attraverso la lettura dei principi della Conservazione contenuti nella Carta di Venezia (artt. da 4 a 14) appare evidente affermare quanto sia prioritario intervenire limitando gli interventi di adattamento a nuovo uso, come pure nella conservazione delle condizioni ambientali, in altre parole si concretizza l’obbligo anche per i siti, i quartieri e gli ambiti locali di operare secondo le norme del restauro architettonico.

Potremmo dire in altri termini che l’ipertrofia della produttività e del consumismo stanno cozzando contro il valore della libertà dei pochi o, in altri termini, dei moderni poveri con i quali non esiste più la convivialità di un tempo. Voglio precisare che io non sto facendo un atto di accusa verso l’importanza e legittimità dell’impresa privata, del rischio connesso e il sacrosanto valore dei sacrifici di ogni soggetto che investe.

Il mio atto di accusa è verso la classe politica che governa la città e che dimostra di non saperla gestire, di non mostrare adeguata sensibilità e visione strategica. Non è possibile poter “concedere” degli spazi pubblici in modo così leggero e scanzonato come se alzare le quote di un sedime fosse un atto superficiale. Un impianto è storico non per la facies, l’aspetto cioè della sua superficie, ma per le tracce dei piani di posa dei manufatti, per le relazioni tra le parti, per il significato dei suoi attraversamenti, per gli scorci e le prospettive ottenute. Nell’intervenire per un nuovo uso (tra l’altro incompatibile con gli handicap motori) si modifica tutto questo e qui il politico che non sorveglia e non stigmatizza è complice del degrado e commette un abuso oltre che un errore politico. Ad oggi nessuno ha detto una parola. Nessuno. Solo il nostro giornale. E siamo tuttavia ben consci che ad ognuno è concesso di sbagliare come pure vero che si possa realizzare lo stesso tipo di interventi con tecniche reversibili e provvisorie.

Gli assessori che nel tempo hanno voluto il riconoscimento della Heritage List oggi vanificano ogni loro gesto. Non si ravvisa un vero piano di crescita territoriale, ma una puntuale frammentazione di eventi spot e ravviso una evidente scissione tra intenti e parole. Dispiace sapere che quindi un sindaco in veste ufficiale e con tanto di fascia tricolore rappresenti una città nella sua interezza quando si presta alle inaugurazioni dei privati… C’è chi meglio di me ha espresso questi concetti dicendo che “il popolo che si abbandona alla distruzione di qualsiasi cosa senza una ragione è plebaglia e l’Architettura finisce sempre distrutta senza ragione” era John Ruskin ne “Le sette lampade dell’Architettura” di un recente 1849.

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