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Se la luce del Duomo non viene mostrata…

“Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι μᾶλλον τὸ σχότος ἢ τὸ φῶς”.

“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce” (Giovanni, III, 19).

Per un attimo scegliete di travalicare questo schermo e assaporate il contatto con questa strana entità fisica. La Luce. Vi sto portando ad ammirare con occhi di un’altra mente il nostro mondo pieno di sensazioni spesso trascurate. Cosa è in grado di evocare questa eterea presenza e cosa ha generato nel nostro contesto urbano fatto di un Tempo storico e architettonico?

La definizione “metafisica della luce” fu coniata nel 1916 da Clemens Baeumker e indica un contesto speculativo della cultura filosofica e teologica latina medievale che si innestò sotto la spinta di molteplici influssi: neoplatonici, teologici (la patristica greca, Agostino e lo pseudo-Dionigi) e arabi (Alkindi, Avicenna, Algazel e soprattutto Avicebron). La dottrina agostiniana dell’illuminazione divina dell’intelletto, ininterrottamente trasmessa nel pensiero medievale, connette insieme il livello fisico, psicologico, gnoseologico e teologico sotto l’insegna della luce, ed in stretta continuitàcon la dogmatica cristiana: espressioni come “Cristo lumen gentium”, e la relazione trinitaria quale “lumen de lumine »divengono più che una metafora o pura analogia.

Provo adesso a contestualizzare calando nella nostra dimensione tali concetti: “La luce come forma architettonica” è esattamente l’opposto dell’architettura della luce, in quanto in quest’ultima la luce può essere indipendente dall’architettura e formarne una propria anche con esiti devastanti e offensivi dei sottostanti livelli. Questa “luce come forma architettonica” è inscindibile dai caratteri specifici dell’architettura. E poiché il linguaggio architettonico è qualificato dallo spazio interno, dalle cavità vissute in modo dinamico, “la luce come forma dell’architettura” riguarda principalmente lo spazio interno e il suo involucro.

Guardando alla Preistoria (grado zero della luce), non ci sono regole, simmetrie, ripetizioni, assonanze, stabilità, armonie, equilibri e proporzioni, ma piuttosto casualità e dissonanze di ogni genere e intensità. Nelle caverne, nei passaggi sotterranei, nei templi e nelle chiese ipogeiche, la luce è più eloquente di quella di ogni altra epoca. Batte su ogni superficie che non è separata dalle altre, ma si muove su piani continui, ruvidi, organici, impuri, contaminati, rovinati. Entro questo sistema, il buio gioca spesso un suo ruolo più o meno inquietante.

In tale senso l’intera storia dell’architettura forse potrebbe essere interpretata come una serie di tentativi per riconquistare alcuni dei valori perduti della preistoria. Nelle età antiche, la luce segue le finalità dello spazio. Nell’antica Grecia, ad esempio, la luce cade sui volumi e sulle loro componenti, colonne, modanature, cornici. Le Corbusier parla giustamente di “volumi liberi e puri sotto la luce”, non della luce attraverso e dentro i volumi.

Qualcosa di analogo accade nell’antica Roma. Quando lo spazio interno esiste, ma è statico, isolato, privo di contatti con lo spazio urbano, la luce resta un’entità fine a se stessa, e basti pensare all’oculo del Pantheon in cui la luce permea il vuoto e non dialoga con il tutto poiché non aggiunge significati simbolici alla struttura.

Nel Medioevo la luce deflagra, si fa protagonista dell’architettura, specie nei suoi interni stregati. Non di rado, la consistenza tettonica è disintegrata,poiché l’involucro è ammantato di mosaici. Ogni profondità è riassorbita, e le pareti si riducono a superfici fluenti. In questo mondo senza peso, la luce può determinare esiti stupefacenti.

Basti pensare a San Vitale di Ravenna, a Santo Sofia ad Istanbul, al nostro Duomo di Monreale. Nel nostro famoso tempio normanno le absidi dilatano il vuoto, attirando brani della cavità dall’interno verso l’esterno. Ma la luce contrasta questo moto e preme dall’esterno all’interno. Alla fine, la luce vince, inonda le superfici mosaicate che l’incorporano e la ritrasmettono tanto che sembra emanare da dentro a fuori. Le pareti sono radianti, assai più delle loro forature. Per non parlare del gioco di riverberi alto/basso contrastati tra il marmoreo bianco istoriato del livello umano che diviene esplosione di luce mistica nel superno fragore dorato.

La luce di Dio non è né spirituale, come quella dell’intelletto angelico e umano, né corporea come quella che costituisce gli enti naturali: è indefinibile e completamente trascendente. Dunque anche sul piano teologico si avvalora l’assunto che ogni esistenza è una forma della luminosità.

Nella Genesi tutto origina nella Luce (Gen 1,3). Nella risurrezione si verifica in modo più sublime ciò che questo testo descrive come l’inizio di tutte le cose. Dio dice nuovamente: “Sia la luce!”. Con la risurrezione, il giorno di Dio entra nelle notti della storia. A partire dalla risurrezione, la luce di Dio si diffonde nel mondo e nella storia. Si fa giorno. Solo questa Luce – Gesù Cristo – è la Luce vera, più del fenomeno fisico di luce. Egli è la Luce pura: Dio stesso, che fa nascere una nuova creazione in mezzo a quella antica, trasforma il caos in cosmo.

Nel corpo di fabbrica del Duomo questa luce non buca le pareti per colorare lo spazio, ma diviene intrinseca all’involucro edilizio, che risulta tessuto da partizioni strutturali e tracciati di luce. Pertanto il tema della luce non è analizzato con dovuta attenzione nelle quotidiane visite architettoniche di questo bene religioso e culturale. Un fondamentale strumento del linguaggio dell’architettura e del messaggio cristiano viene dunque sottovalutato. Inoltre ciò che è divenuto indifferenza dei critici e dei commentatori nei confronti dei valori della luce si riflette automaticamente in quella dei progettisti e dei fruitori generici; gli edifici contemporanei risultano così drammaticamente privati di uno dei loro più arcani e ipnotici messaggi.

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