Mafia, vecchi e nuovi boss che si riorganizzano: i dettagli dell’operazione dei carabinieri di Monreale

Redazione

Cronaca

Mafia, vecchi e nuovi boss che si riorganizzano: i dettagli dell’operazione dei carabinieri di Monreale
Azzerati i mandamenti di Villagrazia-Santa Maria di Gesù e San Giuseppe Jato

16 Marzo 2016 - 12:57

Nella mattinata odierna a Palermo e provincia i Carabinieri del Ros e del Gruppo di Monreale nel corso di un’operazione congiunta hanno dato esecuzione a due distinte ordinanze di custodia cautelare, emesse dal Gip del Tribunale di Palermo Guglielmo Ferdinando Nicastro, su richiesta della Procura Distrettuale diretta da Francesco Lo Voi, complessivamente nei confronti di 62 soggetti (leggi i nomi), accusati a vario titolo dei delitti di partecipazione ad associazione mafiosa, estorsione, danneggiamento ed incendio, ricettazione, favoreggiamento, trasferimento fraudolento di valori e reati in materia di armi, tutti aggravati dal metodo e dalla finalità mafiosa.

Contestualmente sono stati posti sotto sequestro beni, imprese e società riconducibili in parte all’associazione mafiosa ed in parte ai singoli indagati. L’operazione è frutto di due parallele manovre investigative sviluppate nel tempo in direzione dei mandamenti di Villagrazia – Santa Maria di Gesù (Ros) e San Giuseppe Jato (Gruppo di Monreale) che hanno avuto significative tangenze in occasione delle dinamiche inerenti la riorganizzazione dei due mandamenti e della dipendente famiglia di Altofonte.

Le indagini coordinate dai Procurato aggiunto Leonardo Agueci e Vittorio Teresi e dai sostituti Sergio Demontis, Francesca Mazzocco, Francesco Del Bene, Amelia Luise e Siro Deflammineis sono state avviate su obiettivi strategici individuati sulla scorta della precedente indagine denominata “Nuovo Mandamento” che nell’aprile 2013 aveva impedito la ricostruzione territoriale di Cosa Nostra nell’area occidentale della provincia di Palermo.

LE INDAGINI SUL MANDAMENTO DI VILLAGRAZIA-SANTA MARIA DI GESU’

L’indagine condotta dal ROS, denominata “Brasca” come l’area rurale posta alle pendici del monte Grifone, ha interessato inizialmente la famiglia di Villagrazia per poi estendersi anche a quella di Santa Maria di Gesù, registrando inoltre rilevanti interlocuzioni con esponenti apicali dei mandamenti di Corleone, Pagliarelli, San Giuseppe Jato nonché delle famiglie di Altofonte, Monreale, Piana degli Albanesi e Belmonte Mezzagno.

L’attività investigativa, avviata nel novembre 2012 a seguito dell’indagine denominata “Nuovo Mandamento” che aveva fotografato la ricostruzione territoriale di Cosa Nostra nell’area occidentale della provincia di Palermo, ha documentato il ruolo di Mario Marchese inteso Mariano quale vertice del mandamento di Villagrazia – Santa Maria di Gesù e della famiglia di Villagrazia; questi, storico uomo d’onore e da sempre legatissimo a Benedetto Capizzi, si è avvalso prevalentemente di Antonino Pipitone, anch’egli affiliato dalla lunga militanza, e di Vincenzo Adelfio, incensurato ma esponente dell’omonimo e noto gruppo familiare, cui sono rispettivamente demandati il coordinamento operativo della famiglia di Villagrazia, con le connesse problematiche interne al mandamento, ed il controllo del territorio.

E’ stato inoltre ricostruito l’organigramma della famiglia di Villagrazia con l’individuazione degli appartenenti, taluni dei quali mai emersi in attività investigative pur essendo affiliati da lungo tempo, e/o degli avvicinati: Antonio e Filippo Adelfio, il detenuto Benedetto Capizzi (già condannato per associazione mafiosa), Antonino Capizzi (già condannato per associazione mafiosa), Pietro e Salvatore Maria Capizzi, Salvatore e Pietro Di Blasi, Fabrizio Gambino, Giovanni Messina, Gregorio Ribaudo e Giovanni Tusa.

Le indagini hanno consentito di avere cognizione del ferreo ed ortodosso rispetto delle regole di Cosa Nostra da parte degli esponenti della famiglia di Villagrazia, secondo il paradigma evidenziato dai primi collaboratori di Giustizia (in particolare Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno) ed enucleato negli atti dello storico maxi processo.

In particolare, spiegano i Carabinieri, è stata accertata:

  • la rigida osservanza del divieto di rivelare l’appartenenza all’organizzazione o di affrontare argomenti ad essa inerenti con soggetti che, pur in rappresentanza di altri mandamenti, non erano stati introdotti secondo modalità e canali appropriati; la mancanza di riservatezza nella gestione delle informazioni e/o comunicazioni da parte di membri di altri mandamenti è stata fortemente stigmatizzata da alcuni degli indagati per le possibili conseguenze giudiziarie (Vossia è lo zio Mariano?… si… con chi ho il piacere di parlare… ci manda … lo zio Gregorio… abbiamo il mandamento nelle mani noi altri…. fermati là… non lo voglio sapere);
  • l’attuale vigenza della presentazione rituale sia sotto il profilo della necessaria presenza di un terzo che possa garantire la qualità di uomo d’onore degli interventuti, sia del mai abrogato uso della formula “questo è la stessa cosa” per introdurre un altro affiliato; lo scopo è di evitare che nei contatti fra soggetti combinati si possano inserire estranei, apprendendo notizie la cui conoscenza è riservata ai soli uomini d’onore (… mi ha detto che era “la stissa cuosa”);
  • il dovere di sostegno imprescindibile sia nei confronti dei reclusi della propria famiglia e, talvolta per motivi di opportunità e/o legami peculiari, anche verso i membri di altre articolazioni mafiose; il supporto economico è ovviamente assicurato mediante il ricorso ad attività illegali e si intensifica soprattutto in occasione delle festività ovvero a seguito di particolari condizioni (una infermità come nel caso di Benedetto Capizzi, già capo commissione in pectore ai tempi del tentativo di ricostituzione dell’organismo collegiale di vertice nel 2008) (… e perchè c’è qualche carceratieddu ed è giusto che uno ci deve pensare…); l’assoluto divieto di ricorso alla giustizia statuale, sostituita da una sorta di autotutela mafiosa da attuare attraverso l’interessamento degli altri referenti mafiosi;
  • il rispetto dell’obbligo di protezione dei ricercati, documentato nelle prime fasi successive all’omicidio di Giovanni Battista Tusa, già indicato come uomo d’onore, ucciso nel 2013 dal cognato Vincenzo Gambino, poi invitato a consegnarsi per evitare la presenza di organismi investigativi sul territorio di riferimento; il permanere dei requisiti morali richiesti ai candidati all’ingresso in Cosa Nostra, già sintetizzato nell’”assoluta mancanza di vincoli di parentela con «sbirri»”; in tal senso è stata stigmatizzata la scelta del capo del mandamento di San Giuseppe Jato di aver appoggiato in posizione di rilievo della famiglia di Altofonte la nomina di un esponente che, benchè cognato dell’ex latitante Domenico Raccuglia, è Sottufficiale dell’Esercito; il medesimo netto rifiuto era manifestato anche nei confronti di soggetti legati con congiunti di magistrati (… là nel portone gli abbiamo fatto la croce! ha fatto a sua figlia fidanzata con… un magistrato ma prima ci si teneva a tutte queste cose… minchia ora si sposano con gli sbirri!… Con i carabinieri…). Altra dote indispensabile per i futuri affiliati è la totale dedizione all’organizzazione che prevale sempre anche sulle esigenze della famiglia di sangue (lasciavo la qualsiasi cosa… tutto…pure a mia moglie al momento che partoriva lasciavo io!).
  • Un aspetto sconosciuto attestato dalle attività è rappresentato invece dalla consuetudine che le spese funebri in occasione della morte degli affiliati siano sostenute dall’organizzazione (Zu Vicè mi dica una cosa…so … che quando muore uno un amico nostro… che… è cosi… gli fate il …il funerale); se tale pratica poteva essere intuita, soprattutto per gli esponenti di maggior prestigio, in realtà mai prima d’ora se ne era ottenuta conferma.

Altro dato significativo nell’ottica dell’approfondimento della conoscenza del fenomeno mafioso, è l’aver individuato l’esatta demarcazione territoriale della famiglia di Villagrazia che consente, da un lato, di comprendere appieno le diatribe sulla competenza dei sodalizi contermini nelle attività estorsive e, dall’altra, di precisare di conseguenza i confini delle altre articolazioni mafiose. In particolare, oltre all’omonima borgata palermitana, il territorio della menzionata articolazione mafiosa comprende anche la frazione Villaciambra, inserita nel comune di Monreale, e alcune aree ricadenti nel comune di Altofonte.

La Famiglia di Santa Maria di Gesù

Le emergenze operative hanno poi consentito di certificare l’appartenenza di taluni soggetti alla famiglia di Santa Maria di Gesù, facente parte del medesimo mandamento unitamente alla famiglia di Villagrazia, il cui esponente apicale è stato individuato in Giuseppe Greco (già condannato per associazione mafiosa e detenuto a seguito dell’operazione Torre dei Diavoli condotta sempre dal Ros) che, nello svolgimento di detto incarico, si è avvalso della collaborazione di Mario Taormina (in passato destinatario di altra misura cautelare per associazione mafiosa).

All’interno dell’articolazione mafiosa si è individuata una fazione legata al detenuto Ignazio Pullarà, già reggente, e costituita dal figlio Santi e da Gaetano (già condannato per associazione mafiosa) e Francesco Di Marco, e Alfredo Giordano (insospettabile direttore di sala al teatro Massimo di Palermo). Questi ultimi, distinguendosi dal gruppo operante sul quartiere Guadagna, si riunivano prevalentemente presso una marmeria già indicata negli anni ’90 quale luogo di appuntamenti degli appartenenti al sodalizio mafioso e punto di smistamento dei messaggi e/o pizzini tra Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. Tra i soggetti inseriti nella famiglia di Santa Maria di Gesù sono stati inoltre identificati Girolamo Mondino (già condannato per associazione mafiosa) e Antonino Macaluso, soggetto questo ultimo a cui era delegata la gestione di beni della famiglia Pullarà.

Sono stati inoltre acquisiti elementi inediti circa la causale dell’omicidio di Giuseppe Calascibetta soprannominato faccia di umma, ucciso a colpi di pistola nel 2011 mentre ricopriva verosimilmente la carica di reggente del mandamento di Santa Maria di Gesù. Secondo quanto captato, prima di morire, il soggetto avrebbe trattenuto per sé 30 mila euro raccolti da Vincenzo Adelfio il quale, alla successiva richiesta di Giuseppe Greco, avrebbe confermato l’avvenuta consegna. Tale fatto, insieme ad altri episodi non specificati, era considerato da parte degli appartenenti alla famiglia di Villagrazia il movente dell’eliminazione di Calascibetta.

I Rapporti Intermandamentali

Oltre ad essere il vertice della propria articolazione, Mario Marchese è stato un sicuro riferimento per le organizzazioni mafiose confinanti quali i mandamenti di Corleone, Pagliarelli e San Giuseppe Jato (relazionandosi con esponenti delle famiglie di Altofonte, Monreale e Piana degli Albanesi, tutte inserite in quest’ultimo mandamento) nonché con la famiglia di Belmonte Mezzagno.

Dalle indagini è emerso che Gregorio Agrigento, (storico uomo d’onore già condannato per associazione mafiosa) aveva tentato di accreditarsi presso Mario Marchese quale vertice del mandamento di San Giuseppe Jato (all’interno del quale era in atto una ristrutturazione) e che, in sostituzione di Giuseppe Marfia detto lupiddu (già reggente della famiglia di Altofonte, arrestato nell’indagine “Nuovo Mandamento” e legato a Mario Marchese), aveva designato i nuovi rappresentanti della famiglia di Altofonte (Andrea Di Matteo, Salvatore Terrasi e Giuseppe Serbino).

I precedenti contatti tra Marchese e Marfia erano peraltro assicurati da Enrico Segreto, deceduto alcuni mesi fa per cause naturali; pare interessante evidenziare che, con l’arresto di Marfia, il suo imprenditore di riferimento Giovanni Battista Inchiappa (in passato segnalato per associazione mafiosa ed intestazione fittizia di beni) si sia avvicinato a Marchese pur essendo questi inserito in un diverso mandamento.

I rapporti tra Gregorio Agrigento e Mario Marchese, erano assicurate da Giuseppe Riolo (capo della famiglia di Piana degli Albanesi) che, in quella fase, agiva anche quale emissario del mandamento di Corleone. Sui rapporti tra la famiglia di Villagrazia e quella di Monreale, è stato accertato il legame esistente tra Mario Marchese, Carmelo La Ciura e Domenico Billeci (anche questi ultimi due tratti in arresto con la citata indagine “Nuovo Mandamento”).

Le indagini hanno evidenziato anche i rapporti degli esponenti principali della famiglia di Villagrazia con alcuni soggetti paritetici che, nelle more dell’emissione della misura cautelare, sono stati progressivamente raggiunti da altri provvedimenti restrittivi:

  • LEONFORTE Atanasio Ugo, reggente della famiglia di Ficarazzi, arrestato nel giugno 2014 nel quadro dell’operazione RESET del Nucleo Investigativo CC di Palermo;
  • PERRONE Giuseppe inteso Massimo, esponente apicale del mandamento di Pagliarelli poi destinatario di misura cautelare nel maggio 2015 a seguito dell’operazione VERBERO del Nucleo Investigativo CC di Palermo;
  • LO BUE Rosario, capo del mandamento di Corleone destinatario di o.c.c. in carcere a seguito dell’operazione GRANDE PASSO 3 del Nucleo Investigativo CC di Monreale;
  • BISCONTI Filippo Salvatore, uomo d’onore della famiglia di Belmonte Mezzagno, sottoposto a fermo nell’ambito dell’operazione JAFAR del Nucleo Investigativo CC di Palermo.

I Reati Fine

Grazie alla complessiva manovra investigativa svolta, è stato acclarato il sinergico agire delle due articolazioni del mandamento di Villagrazia – Santa Maria di Gesù nella riscossione dei proventi estorsivi e, per quanto concerne il territorio di Villagrazia, un controllo puntuale e diffuso nei confronti delle imprese o esercizi commerciali da sottoporre a messa a posto o a richiesta di pizzo; nel complesso, esclusivamente grazie alle attività tecniche, sono stati infatti acclarati 11 episodi estorsivi consumati da alcuni degli indagati nei confronti di imprenditori e commercianti.

Proprio l’esigenza di provvedere a tali estorsioni ha confermato il perdurante legame tra gli affiliati in libertà e quelli detenuti che dai primi ricevono il sostegno economico; in particolare è stata accertata una serie di “situazioni messe a posto“, anche di rilevante entità, nei confronti di imprese impegnate nella realizzazione di complessi edilizi sia in città che nella frazione Villaciambra, amministrativamente facente parte del comune di Monreale ma storicamente “annessa” al territorio della famiglia di Villagrazia.

Nell’ambito della indagine è stato anche documentato che Vincenzo Adelfio, ritenendo di non essere stato trattato con il dovuto rispetto dal direttore di un ufficio postale del capoluogo, aveva chiesto a Mariano Marchese l’autorizzazione per realizzare una azione intimidatoria, realizzata poi con il danneggiamento dell’auto della vittima.

La Famiglia di San Giuseppe Jato

Dopo l’azzeramento del mandamento di San Giuseppe Jato dopo l’operazione condotta nell’aprile 2013, il nuovo schieramento approfittava del temporaneo vuoto di potere venutosi a creare per imporsi, come nuova forza emergente, mediante una lunga serie di danneggiamenti ed atti intimidatori nei confronti di quei soggetti che fino a quel momento si erano dimostrati vicini al vecchio potere mafioso.

La situazione venutasi a determinare ha creato una grande tensione tra le due fazioni, l’una rappresentata da Agrigento e dalle persone a lui vicine – su tutti, Ignazio Bruno, già sorvegliato speciale, e Antonino Alamia, barbiere – e l’altra da Giovanni Di Lorenzo, detto la morte, operaio edile, pregiudicato, il quale cercava nel marasma di gestire gli interessi dei vecchi, legati a Salvatore Mulè, vecchio capo mandamento, condannato a 19 anni di carcere e recluso al regime del 41 bis. Infatti, tra il giugno 2013 ed i primi mesi del 2014, si potevano contare otto atti intimidatori ed incendi in danno di persone che erano considerate vicine a Mulè.

Al fine di fronteggiare la fazione avversaria, Giovanni Di Lorenzo cominciava ad approvvigionare armi preoccupandosi non solo di tutelare la propria incolumità da atti violenti, ma anche di porre in essere una serie di atti intimidatori. Così, ad esempio, la notte tra il 18 ed il 19 gennaio del 2014, venivano uccisi numerosi bovini a Giovanni Longo – un allevatore già tratto in arresto nell’operazione “Nuovo Mandamento”, vicino a Salvatore Mulè – in quanto accusato di avere trattenuto per sé una ingente somma di denaro destinata alla famiglia del detenuto, con la quale aveva acquistato un’autovettura, incendiata il 31 dicembre 2013, e gli stessi bovini, poi uccisi.

Il 31 gennaio successivo, a seguito di una perquisizione eseguita presso un’area agricola nella periferia di San Giuseppe Jato, di proprietà di Giuseppe Tartarone Buscemi, venivano rinvenute, all’interno della stalla, occultate tra le balle di fieno, due pistole calibro 7.65, un fucile a canne mozze calibro 12, numerose munizioni e due passamontagna. Le armi erano tutte perfettamente funzionanti, pronte all’uso e con il colpo in canna.

Privato dell’arsenale di cui la fazione legata a Salvatore Mulè aveva la disponibilità, Di Lorenzo iniziava così una nuova spasmodica ricerca di armi e relative munizioni. L’attività investigativa consentiva infatti di documentare la compravendita di una pistola ad opera di Antonino Giorlando, imprenditore edile di Monreale, e la consegna di un’altra arma, calibro 32, da parte di Vincenzo Ferrara di San Cipirello al Di Lorenzo.

Nel frattempo, la tensione venutasi a creare tra le due fazioni si risolveva solo formalmente con due riunioni tenutesi il 23 febbraio ed il 9 marzo 2014, tra i due schieramenti, ed in particolare tra il capo della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, Ignazio Bruno, Antonino Alamia, il cassiere, e Giuseppe D’Anna, capo decina, da un lato, e Giovanni Di Lorenzo e Vincenzo Licari, locale imprenditore edile, dall’altro.

Nel corso degli incontri veniva stabilita una pax mafiosa nel mandamento della valle dello Jato. Al riguardo, Di Lorenzo veniva intercettato: “Eh, io sono stato chiamato da un paio (di persone, ndt) per fare appaciare (per fare la pace, ndt)…..facciamo l’appaciata (la pace, ndt) e poi si vede!….Domenica ho avuto una riunione, gliel’ho detto, le cose quando sono rapportate, di qua che arrivano da te…omissis…gli ho detto, triplicano le cose!…omissis…Gli ho detto, e poi succedono le male lingue!……Minchia,!…. Minchia, ieri parole pesanti!….Io non mi spavento di te, tu non ti spaventi di me! Pitipum pitipam …Nca tirami (sparami, ndt), vediamo! Tirami! Se hai l’abilità mi tiri!….Ci deve essere un altro incontro per fare un’appaciata con tutti!”.

Le acquisizioni investigative dimostravano che, nonostante i chiarimenti avvenuti in più occasioni, non si giungeva mai ad una comunione di intenti tra le due fazioni, anzi il contrasto tra le stesse si riacutizzava, tanto che lo schieramento riconducibile a Salvatore Mulè, nella persona di Giovanni Di Lorenzo, si adoperava per reperire ulteriori armi.

Il 4 novembre 2014, lo stesso Di Lorenzo veniva arrestato in quanto sorpreso in possesso di una pistola replica a salve, modello 92 Beretta, modificata e perfettamente funzionante per camerare ed esplodere cartucce calibro 7,65. Nel corso dell’attività veniva anche identificato e arrestato anche Raffele Bisiccè, della zona Bonagia di Palermo, soggetto che aveva modificato e fornito l’arma a Di Lorenzo. La successiva perquisizione eseguita presso la abitazione del Biscè consentiva ai militari di rinvenire una pistola calibro 10,35 perfettamente funzionante, centinaia di munizioni di diverso calibro, oltre che l’attrezzatura per produrle.

L’insediamento del nuovo potere mafioso si accompagnava ad una recrudescenza di episodi di estorsioni e danneggiamenti anche di ingente entità economica, che inducevano, segnando un incontrovertibile cambio di tendenza, taluni operatori economici ad abbandonare l’atteggiamento omertoso ed a rivolgersi ai Carabinieri per denunciare le richieste estorsive subite, permettendo, con le loro rivelazioni, di individuare ed accertare la responsabilità penale degli indagati.

Più in generale, nell’azione di prevenzione e contrasto al fenomeno estorsivo i Carabinieri si sono anche avvalsi sul territorio del rapporto consolidato nel tempo con l’associazione antiracket Addiopizzo.

Nel corso dell’indagine, i carabinieri hanno acquisito elementi di prova a carico di una serie di soggetti dediti al furto ed alla ricettazione di mezzi d’opera ed auto nelle province di Palermo, Agrigento e Reggio Calabria, tra cui Saverio Zinna, della zona Borgonuovo di Palermo, venditore ambulante nel settore ortofrutticolo, pregiudicato per reati contro il patrimonio e la persona, al quale i mafiosi di San Giuseppe Jato si erano rivolti per organizzare incontri al fine di recuperare mezzi da reimpiegare nelle loro illecite attività. In tquesto contesto venivano rinvenuti e restituiti ai legittimi proprietari i mezzi provento di furto.

La Famiglia di Monreale

Nell’ambito delle indagini sono stati condotti mirati approfondimenti sulla famiglia mafiosa di Monreale, una delle articolazioni più rilevanti del mandamento di San Giuseppe Jato, anche in considerazione della posizione strategica per la vicinanza alla città di Palermo.

Nell’aprile del 2013 l’operazione “Nuovo Mandamento” aveva disvelato il nuovo organigramma del sodalizio mafioso diretto da Vincenzo Madonia e Carmelo La Ciura (già condannati per associazione mafiosa), che si erano avvalsi della collaborazione nel territorio di Pioppo di Giuseppe Lucido Libranti (imputato per le stesse indagini innanzi alla Corte d’Assise di Palermo), nonché aveva fatto emergere una violenta contrapposizione interna fra i due e il gruppo dei soggetti detenuti, culminata con l’episodio della scomparsa, nel marzo 2012, con il metodo della lupara bianca, di Giuseppe Billitteri.

Le indagini hanno accertato, che la riorganizzazione della famiglia era avvenuta sotto la direzione di Giovan Battista Ciulla, fisioterapista a domicilio, privo di precedenti penali, ma addentrato nelle dinamiche mafiose per via dei legami con Carmelo La Ciura, in quanto “figlioccio” del genero; sulla base di tali presupposti il giovane era stato elevato da semplice soldato a generale, così come esplicitamente asserito nel corso di una intercettazione ambientale, quando, affrontando la questione della sua nomina a reggente della famiglia mafiosa, riconducendo il discorso in un ambiente paragonato a quello militare, il Ciulla, appunto, affermava: “A me … mi ha stranizzato allora, quando mi hanno detto … dice … che a te avevano fatto questo vestitino … ho detto: “mah!” … Però ora … quando uno non lo sa portare il vestito …”“Ma nemmeno prima me ne potevo uscire! … Perché purtroppo non è che è una cosa di ora! … E’ una cosa di sempre! …”“… solo che prima io ero solo … che … “ ”Un soldato eri!…” ”… partivo … nel momento di bisogno! …” “Il soldato … ora è diventato generale! …”.

Gli approfondimenti investigativi hanno permesso di ricostruire l’organigramma della famiglia mafiosa, individuando quale rappresentante Giovan Battista Ciulla, nonché Onofrio Buzzetta, imprenditore edile, nella qualità di capo decina di Pioppo, e Giuseppe Giorlando (già arrestato nel corso dell’operazione “Apocalisse” per estorsione) e Nicola Rinicella, incensurato, pure loro imprenditori edili, quali sodali.

Giovan Battista Ciulla era stato voluto dai vertici del mandamento di San Giuseppe Jato, che avevano imposto la supervisione del loro capo decina, Giuseppe D’Anna. Il rapporto tra i due si era poi consolidato in occasione delle nozze di D’Anna, il quale sceglieva proprio Ciulla quale “compare di anello”.

Anche in questo caso è risultato che l’insediamento del nuovo potere mafioso nel territorio Monrealese si è accompagnato ad una recrudescenza di episodi delittuosi, in particolare danneggiamenti e tentativi di estorsioni che vedeva coinvolta la famiglia mafiosa di Monreale.

Il più eclatante di questi, in paese, risultava essere sicuramente l’incendio dell’autovettura Veronica Madonia, figlia di Vincenzo, avvenuto il 21 maggio 2014 proprio di fronte l’abitazione del vecchio rappresentante della famiglia mafiosa di Monreale, arrestato nell’operazione “Nuovo Mandamento” e condannato in primo grado, il 19 dicembre 2014, a 12 anni di reclusione. L’evento era prova dell’incisiva manifestazione di forza dell’insediamento nel territorio di Monreale del nuovo assetto mafioso che aveva ormai scalzato il vecchio.

All’affermazione della nuova compagine mafiosa corrispondeva anche – come dimostrato nel corso dell’indagine – la volontà di Giovan Battista Ciulla di esercitare un ferreo controllo sui lavori edilizi in corso sul territorio monrealese. Significativa, in tal senso, l’intercettazione di una conversazione nel corso della quale Ciulla palesava il suo progetto di voler controllare almeno il 60% dei lavori sul territorio nel settore edile: “eh…og…oggi, stasera c’è rompimento di coglioni…dico voglio fare io ora, che almeno il sessanta per cento dei lavori che riguarda scavatori e tutto”,“me la sfrutto io, tutto, io devo riuscire in un anno…”.

In tale contesto si inquadravano alcuni danneggiamenti a scopo intimidatorio avvenuti nei territori di Monreale e Pioppo. Alcuni di questi venivano denunciati dai titolari delle imprese interessate e le indagini comprovavano il diretto coinvolgimento di Giovan Battista Ciulla, Onofrio Buzzetta e Giuseppe Giorlando, sotto la supervisione di Giuseppe D’Anna.

Il comportamento talvolta spregiudicato di Ciulla faceva emergere profondi contrasti con gli esponenti della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, a seguito dei quali si rendeva necessario anche il diretto interessamento da parte del capo mandamento Gregorio Agrigento. Alla base di tali contese, si ponevano le contestazioni mosse al Ciulla il quale deliberatamente non aderiva alle convocazioni dei vertici mafiosi (disertando le riunioni), non gestiva “correttamente” il denaro provento delle attività illecite (in un caso anche impossessandosi di una somma di denaro destinata alla cassa del mandamento), ed infine intratteneva una relazione extraconiugale con la moglie di un detenuto, in violazione delle tradizionali regole di Cosa Nostra.

La Famiglia di Altofonte

Le indagini sono state, parallelamente, condotte anche sulla famiglia mafiosa di Altofonte, che è storicamente considerato territorio nevralgico per il dislocamento del controllo di Cosa Nostra nell’ambito della provincia palermitana.

Le indagini hanno permesso di documentare il cambiamento della reggenza dell’articolazione mafiosa di Altofonte dopo l’esecuzione delle ordinanze cautelari emesse nell’ambito dell’operazione “Nuovo Mandamento”. Fino a quella data, il vertice della famiglia era infatti rappresentato da Giuseppe Marfia, detto “lupiddu”, il quale si avvaleva, in particolare, dell’opera di Andrea Marfia, detto “inferno”, per acquisire l’esclusiva dell’esecuzione dei lavori all’interno del cimitero comunale, nonché della collaborazione dei fratelli Vassallo, Giuseppe, detto “Pinuzzu”, e Girolamo, detto “Mommo”, ai quali era stata affidata la gestione di tutti i movimenti terra, scavi e trasporto di materiali, e non ultimo il compito di minacciare gli altri imprenditori, inseriti nello specifico settore, al fine di estorcere loro la cosiddetta messa a posto.

Risultano emblematici i discorsi captati nel corso di una riunione tenutasi tra lo stesso Marfia, Salvatore Di Blasi, della famiglia di Piana degli Albanesi, e il più volte citato Salvatore Mulè, all’epoca reggente del mandamento di San Giuseppe Jato; nella circostanza veniva decisa l’estorsione a carico di un allevatore/macellaio, reo di non aver pagato la così detta messa a posto, stimata nella somma di 10 mila euro, per aver attivato un allevamento di bovini a Santa Cristina Gela. Per definire la questione si rendeva addirittura necessaria un’ulteriore riunione tra Marfia e Salvatore Di Blasi, espressamente delegato da Mario Marchese, per mitigare la richiesta estorsiva ai danni del macellaio, atteso che quest’ultimo, essendo proprietario dell’esercizio commerciale di Villaciambra di Monreale, risultava tra quei commercianti che pagavano regolarmente il pizzo all’articolazione capeggiata da Mario Marchese.

Con l’arresto nel 2013 di Marfia nell’operazione “Nuovo Mandamento”, venuta a mancare tale figura carismatica, le redini della famiglia mafiosa erano state assegnate transitoriamente a Salvatore Terrasi, cognato dell’ex latitante Domenico Raccuglia. Terrasi veniva aiutato da Andrea Di Matteo, detto “faccia di porco”, imprenditore edile, che in breve tempo avrebbe assunto il ruolo di capo famiglia.

Questo cambio al vertice della famiglia di Altofonte veniva commentato nel corso di una conversazione tra Mario Marchese, Gaetano e Francesco Di Marco all’interno della marmeria di quest’ultimo. Nell’occasione Mario Marchese confidava agli interlocutori che Andrea Di Matteo era il rappresentante della famiglia mafiosa di Altofonte. Anche a seguito dell’avvicendamento, le indagini consentivano di documentare come la famiglia mafiosa continuasse a concentrare la propria attenzione principalmente sul settore degli appalti pubblici e sulla commissione di lavori edili privati, non tralasciando – anche per ragioni di controllo del territorio – l’attività estorsiva nei confronti di commercianti e piccoli imprenditori del luogo.

Nel corso delle indagini, i militari hanno provato il rientro della famiglia di Altofonte sotto l’influenza del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato in cui tradizionalmente era inserita e dal quale si sarebbe allontanata per alcuni anni, entrando di fatto nell’orbita della famiglia di Villagrazia, più precisamente nel periodo di reggenza del Marfia, fedelissimo di Mario Marchese, inteso Mariano, rappresentante di Villagrazia.

I Sequestri

Nel complesso dell’indagine si confermava come ancora oggi l’edilizia, sia privata che pubblica, rimane una delle attività su cui maggiormente si rivolge l’attenzione di cosa nostra, che nel tempo ha creato, finanziato e accresciuto imprese compiacenti ovvero direttamente gestite ed utilizzate per monopolizzare lo specifico settore sul territorio di competenza. In particolare, sono state individuate quattro imprese operanti nel settore dei lavori edili, espressione economica delle famiglie mafiose di Altofonte e Monreale, riconducibili nello specifico ad Onofrio Buzzetta, Nicola Rinicella, Giuseppe Giorlando e Giovan Battista Inchiappa.

Le cointeressenze documentate nel corso dell’attività investigativa consentivano il sequestro delle stesse, per un valore complessivo di circa 600 mila euro, oltre a due locali di proprietà di Antonino Alamia, adibiti a barberia e centro estetico, all’interno dei quali venivano realizzati incontri con i vertici di Cosa Nostra.

Nell’operazione sono stati sequestrati beni, intestati in parte a prestanome, il cui valore ammonta a non meno di 3 milioni di euro, in particolare: terreni e locali commerciali riconducibili alla famiglia Pullarà e gestiti da Antonino Macaluso; un conto corrente intestato a Antonio Macaluso; un’impresa individuale “Di Marco Marmi” di Francesco Di Marco, impiegata dagli indagati per incontri e riunioni; la macelleria “Di Maggio Antonina”, gestita da Salvatore Maria Capizzi e luogo di incontro degli indagati; quote, rapporti finanziari e un complesso aziendale della “Bingo.it s.r.l.” controllata dalla “Bingo e Games s.r.l.”, proprietaria di una sala bingo riconducibile alla famiglia Adelfio e capace di generare un fatturato annuo di quasi due milioni di euro; e quote del 20 per cento della “Erregi s.r.l.”, riconducibile alla famiglia Adelfio; e l’impresa individuale “Giuseppina Adelfio”, riconducibile a Santi Pullarà.

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